Si può essere giovani a 90 anni

Un toccante documentario che giostra tra emozioni, tempi, vite e movimenti nel reparto geriatrico dell’ospedale Charles Foix d’Ivry dove un famoso coreografo – Thierry Thieû Niang – arriva per proporre agli ospiti della struttura un laboratorio di danza.

La storia raccontata nel documentario, ripreso nell’arco di soli sei giorni dai registi Valeria Bruni Tedeschi e Yann Coridian, è qualcosa di difficile da affrontare in una recensione. Difficile perché la forza della pellicola stava soprattutto nell’incontro tra persone, tra corpi, tra sguardi, sorrisi e parole, rifiutando spiegazioni, interpretazioni e forzature. Difficile perché ci si accosta a un tema universale come quello dell’invecchiamento, che accomuna tutti gli esseri umani nell’eterogeneità dei rapporti e dei vissuti affettivi a esso connessi. Proprio per la difficoltà nel non cadere in luoghi comuni recensendo un documentario che riprende in modo intenso emozioni forti, entrando con discrezione ma nel profondo di storie di vita intime e private, cercherò di limitarmi a qualche riflessione di stampo umano e sociale prendendo spunto da frammenti di storie di vita.

Il tempo è elemento centrale del documentario, che ci mostra come sia dilatabile, manipolabile e relativo rispetto alle percezioni. Al termine della proiezione registi e parte della produzione hanno spiegato alla sala come inizialmente il documentario dovesse essere una qualcosa di breve, all’incirca una ventina di minuti, scoprendo durante le riprese come le storie da raccontare fossero molte e degne di maggior tempo, spazio ed elaborazione. Di fronte a una malattia che, come ricordava Thierry con acuta sensibilità in sala, dilata il presente anche su passato e futuro, urge un modo diverso di pensare lo scorrere della vita, rivolgendosi a un tempo che va vissuto e assaporato, per quanto possibile, nel modo migliore. Potrà sembrare qualcosa di ovvio, ma si tratta ancora purtroppo di una pratica non scontata pur in un contesto dove l’invecchiamento della popolazione è sempre maggiore e rappresenta un fattore complesso riguardo alla sua gestione da parte degli stati sociali.

Se di un presente dilatato si tratta, le routine ingabbianti spesso presenti nelle istituzioni residenziali previste al fine di garantire stabilità e un certo senso di sicurezza possono costituire qualcosa che azzera del tutto le prospettive di emersione di un elemento che spezza la quotidianità. Cosa che il laboratorio di danza proposto fa, provando riattivare la fisicità e le emozioni delle persone.

Connesse al tempo nella loro intima essenza, le storie di vita permettono altresì una frammentaria sortita dal presente, verso un frammentario passato sbiadito dalla memoria che tuttavia merita ancora di essere narrato. Il film mostra nei dialoghi come le signore ospiti del reparto geriatrico amino raccontare – e raccontarsi – con qualcuno che le ascolti e che le aiuti a ricostruire (ma anche a costruire) eventi e pensieri.

Nella discussione col pubblico, il coreografo spiegava come avesse visto gli ospiti solo per due giorni di visita e presa di contatto prima del laboratorio di sei giorni. Uno sconosciuto dunque, che in barba alla famosa “distanza” da tenere con le persone, mostra come avvicinandosi in modo rispettoso e sincero – facendo perno in questo caso sulla danza, arte dove i corpi si distendono e sostengono – sia possibile coinvolgere le persone in esperienze emozionanti e vive. Ecco quindi che l’attenzione ai bisogni delle persone non deve fossilizzarsi su un insieme di procedure che rappresentano le “regole” per stare insieme ai malati di Alzheimer, ma permettere loro di trovare gioie in piccole e grandi evasioni dalla condizione di paziente, portando sé e le proprie emozioni in primo piano. Emblematica la scena in cui Blanche, parlando con Thierry, afferma di non sopportare le solite canzoni di natale cantate ogni anno in coro da infermieri e parte dei pazienti che deprimono l’ambiente e chi lo vive.

Blanche durante il laboratorio legherà particolarmente con Thierry, tra passi di danza e intensi momenti comunicativi, innamorandosi di lui. Qualcosa che sembra folle, irrealizzabile, in previsione della corta durata del laboratorio anche doloroso, eppure un sentimento che accende la voglia di assaporare la vita della jeune fille di 92 anni, che vediamo in pochi giorni, nella riaccesa vitalità, assaporare attimi di giovinezza nel ballo, nell’amore come nei racconti. Qualcosa che emoziona, di fronte alla parziale perdita fisica e psichica che la vecchiaia spesso comporta, e mostra come anche per persone in condizioni di forte dipendenza sia importante (ri)trovare – senza forzature – le emozioni che spingono ogni giorno a vivere.

Simone Romeo - Sinistra - 6 agosto 2016

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